Quest’anno, il Leone d’Oro premia Lidia Antonacci e il suo olio. Ma soprattutto, la sua storia
Dopo anni di esperienze ad assaggi il mio naso e i miei occhi hanno sviluppato un “fiuto” particolare per le belle persone e le belle Storie. Quando ho conosciuto Lidia Antonacci e ci siamo brevemente annusate, ho capito che il suo olio era la punta dell’iceberg di qualcosa che andava raccontato. E non mi sbagliavo. Se il brand di Lidia – “Mio padre è un albero” – ha un nome declinato al maschile, quella del suo progetto è una storia al femminile. Per di più, di quelle che piacciono a me: una storia trasformativa, quindi.
Lidia Antonacci e il suo olio: una storia di radici
Avevo già letto che la prima proprietaria dell’uliveto – a San Savero, in Puglia – era stata una donna: la bisnonna di Lidia, Vincenza. Il come e il perché, però, ho preferito chiederli direttamente a Lidia Antonacci: “La mia bisnonna era la classica donna di altri tempi capace di accumulare risparmi come una formichina. ‘Se vuoi comprare la terra, i soldi ci sono. Ti chiedo una cosa però: voglio che il terreno venga messo a mio nome’ aveva chiesto al mio bisnonno. E così è stato.”
Un terreno, nel cuore della Capitanata, che produceva olive, orzo, semi e uva e che aveva come principale destinatario il mercato all’ingrosso. Coltivato da forti e solide braccia di uomo ma con l’impronta silenziosa di uno sguardo femminile in filigrana. Quello di nonna Vincenza, prima. E quello di altre due donne, poi: la madre di Lidia, Ottavia e la zia: “Quando mio padre è venuto a mancare, mia madre e mia zia hanno preso in mano il terreno. Mia madre era una donna forte, solida. Mia zia Lidia – di cui porto il nome – era una donna dolcissima. Due femminilità diverse, che hanno letteralmente unito le forze per custodire e portare avanti le attività dell’uliveto di Sant’Andrea: 15 ettari che con i loro 700 ulivi secolari erano sempre stati il nostro fiore all’occhiello.”
La svolta: Lidia al timone dell’azienda agricola
“E tu, quando sei entrata in scena? E soprattutto: come sei entrata in scena. Perché la verità è che non ti sei limitata a continuare il lavoro di tua madre e di tua zia.” chiedo a Lidia Antonacci.
Nelle storie che raccolgo, la cosa che mi appassiona di più non è la continuità ma il punto di svolta. Il momento in cui tradizione e innovazione iniziano a confluire. Lidia mi racconta come (punto in comune di molte storie!) mamma Ottavia volesse per lei una vita più facile:
“Voleva tenermi lontana dal mondo agricolo, tant’è che ho finito per laurearmi in Economia e commercio a Roma. Lo sguardo, però, l’ho sempre tenuto saldamente puntato su ciò che si faceva in azienda. Negli anni Novanta, ho seguito un primo corso di imprenditoria al femminile e ha iniziato a germinare un primissimo progetto di produzione e imbottigliamento dell’olio d’oliva, ragionando sulla qualità. L’idea era quella di trasformare in filiera corta i prodotti dell’azienda, portando sul mercato un prodotto finito. Ma i tempi non erano ancora maturi.
Ho lasciato che tutto venisse da sé, lavorandoci su pazientemente e preparando il terreno. Mi sono formata, sono diventata assaggiatrice professionista presso un panel della Camera di Commercio del Comune di Foggia, ho seguito altri corsi. Prima di creare un prodotto di qualità che mi distinguesse dagli altri produttori, dovevo imparare come si faceva. Poi, come la Natura ci insegna, ho sentito che era arrivato il momento giusto. La mia idea stava prendendo forma, proprio a partire dalla conoscenza di ciò che mancava.
Il vino viene valorizzato: si lavora sulla qualità, sulla bottiglia sull’etichetta. Perché con l’olio le cose sono così diverse?, mi sono chiesta. Creare un prodotto di qualità significa anche comunicarlo. Inutile, creare un olio di primo livello se poi continui a venderlo sfuso. Ci vogliono una bottiglia e un’etichetta che parlino al consumatore. Quando l’ho capito, mi sono subito fiondata in un’agenzia di comunicazione e ho costruito il mio brand. Era il 2011. La mia forza, al principio, è stata proprio quella: allora erano pochi a mettere l’olio in bottiglia. Poi, col tempo, ho sviluppato lo stesso percorso anche per la pasta e per altri prodotti.”
L’olio, la pasta e Lidia
Ma comunicare con il consumatore, significa anche educarlo. All’amaro nell’olio, per esempio: “Da noi si dice: l’olio amaro, tienitelo caro” mi spiega Lidia “Eppure l’amaro rimane il gusto più difficile da apprezzare, per un consumatore. Bisogna farglielo scoprire. Quello sulla qualità, è anche un paziente lavoro di alfabetizzazione e tutto questo passa, giocoforza, attraverso il rapporto diretto. In questo senso, il packaging e l’etichetta aiutano. Non sono solo un guscio vuoto. Lo dico sempre, ai consumatori: dietro un’etichetta ci sono gli occhi e il cuore di un produttore. Cercate quegli occhi. È per questo che ho scelto di non mettere un e-commerce sul mio sito: per dirottare le persone a cercarmi direttamente. Questo aiuta lui ma aiuta anche me. Fidelizzare un consumatore, significa fargli una promessa e mantenerla. Se mi presento come produttrice, non posso permettermi di diventare un’etichettatrice di prodotti altrui ma devo impegnarmi a garantire la mia presenza su tutta la filiera produttiva. Quello tra consumatore e produttore, è un rapporto di reciprocità: si cresce insieme.”
Una percezione molto femminile, mi dico ascoltandola. E per concludere quella che non è solo una storia di donne ma una storia di “donne che cambiano”, chiedo a Lidia Antonacci quale sia oggi il valore di un’impronta femminile, in un lavoro come il suo:
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