In Molise c’è un piccolo borgo in cui la produzione dell’olio d’oliva sta dando man forte alla rinascita del territorio. E a un progetto che mira a tradurre in modo innovativo il concetto di “ritorno”.
Sul Molise – si sa – i luoghi comuni si sprecano. Sono molti ad aver ironizzato su “Molisn’t”, la regione che non c’è ma in fondo sta anche in questo la magia del luogo. Con i pro e i contro della cosa, in termini di natura incontaminata ma anche di scarso sviluppo economico e desertificazione dei borghi. È su questa realtà intessuta di potenti chiaroscuri, che si innesta la storia di un piccolo paese e di un Collettivo che lo sta (a suo modo) rivoluzionando.
Castelbottaccio è un minuscolo borgo che conta meno di 300 abitanti, a metà strada tra il mare e le montagne. Un luogo dalla bellezza sospesa, come se qualcuno avesse fermato le lancette di un orologio immaginario: questo, fino a un paio di anni fa quando due soci hanno dato vita a un progetto che, nel giro di poco, si è trasformato nientemeno che in un collettivo. Il Collettivo Castelboom, appunto. Lo racconta Aljaz Finc, che insieme all’artista Danilo Buccella ha creato le premesse del movimento.
Il concetto rivoluzionario di “ritorno”
Quando chiedo ad Aljaz di riassumermi i punti fondamentali del progetto, lui per tutta risposta mi mostra una mappa e una serie di disegni. Così, di primo acchito, mi vengono in mente le mappe di certi non-luoghi rinascimentali, come Utopia di Tommaso Moro o la Città del Sole di Campanella. In questo caso, però, non si tratta di utopia ma del progetto di un Tempio rurale che si articola in vari interventi sul territorio.
Ci sono (o meglio, ci saranno) un padiglione del silenzio, una torre dei semi, un anfiteatro di paglia, una stanza delle fermentazioni, orti ispirati agli antichi giardini all’italiana. Con un occhio al passato, i piedi che vogliono rimanere saldamente ancorati a terra – nel presente – e lo sguardo rivolto al futuro. Perché parlando con Aljaz, quello che emerge è soprattutto questo: la volontà di innovazione:
“All’inizio, c’eravamo solo Danilo ed io. Il punto di partenza è stato: perché non prendiamo un pezzo di terreno e ci facciamo qualcosa? Poi l’idea è cresciuta da sé e si è trasformata in un collettivo, una sinergia di energie e competenze che mirano a far rinascere questo posto. Io sono di origine slovena, ma vivo a Milano e ho sempre avuto un rapporto molto forte con la natura. Danilo è un artista affermato, originario di Castelbottaccio da parte di entrambi i genitori. Non abbiamo fatto altro che unire le nostre visioni su un progetto moderno, che guarda al futuro e all’innovazione. Io vengo da un mondo, quello della moda e del lusso in cui si parla costantemente dell’esigenza di essere moderni ma in fondo credo che questo sia il progetto più innovativo a cui abbia mai messo mano. Lo è anche se parla di cose che nell’immaginario comune non hanno nulla di moderno come la natura, l’arte, l’agricoltura. Eppure, l’innovazione sta proprio in queste cose, che appartengono al passato ma permettono anche di guardare al futuro. Si è perso un mondo di cui stiamo tentando di rimettere insieme i pezzi. Il ‘ritorno’ che stiamo cercando di innescare è questo. E non è un ritorno conservativo, ma un concetto rivoluzionario. Tant’è che il nostro progetto originario si è trasformato in collettivo e ha convogliato le energie degli abitanti del luogo. Giovani in primis.”
L’olio d’oliva e il Molise. Questione di passato o di futuro?
In tutto questo, l’olio d’oliva c’entra. Eccome, se c’entra. Lo si vede dalla mappa stessa, in cui gli ulivi sono naturalmente inclusi, ma anche dal DNA geografico del luogo. L’ulivo fa parte a tutti gli effetti della tradizione locale e questo, Danilo e Aljaz lo sanno molto bene. Proprio per questo, una parte importante del progetto è riservata proprio alla produzione di un olio d’oliva che in un certo senso mira a diventare una sintesi che distilla le caratteristiche del progetto stesso.
“Certo, l’ulivo qui fa parte tanto del paesaggio quanto della cultura del luogo” racconta Aljaz “E’ importante però capire come. Questo è uno dei tanti angoli d’Italia in cui viene spontaneo pensare a un’antica tradizione olivicola. Il punto, però, è proprio questo: la tradizione non è necessariamente qualcosa di buono. Tradizione a volte significa semplicemente continuare a fare le cose così come si sono sempre fatte. Non per forza bene, quindi. Di fatto, quello che si faceva da queste parti era sostanzialmente olio prodotto per l’autoconsumo. In questo senso, il nostro olio rompe volutamente gli schemi. Per questo motivo, ci teniamo tanto a porre al centro del nostro progetto il concetto di innovazione. Innovare, non è tornare alla tradizione ma costruire. Ripartendo dalle radici, però: dalla terra e dall’identità del luogo. Qui la natura domina selvaggia e noi ci teniamo, al fatto che questa identità non venga toccata
Quando li ho incontrati, un anno fa, sapevo sarebbe stato doloroso dover spiegar loro che tutti e tre i campioni presentati in concorso non avevano passato la selezione. La loro reazione è stata di sincera curiosità nel cercare di capire i margini di miglioramento, hanno accettato il suggerimento di farsi affiancare da un bravo consulente e con umiltà ed entusiasmo hanno seguito le sue indicazioni.
Il risultato è l’olio che è entrato nella Selezione Leone 2021, il monovarietale di Gentile di Larino, un olio che incarna perfettamente lo spirito non addomesticato della geografia del territorio, tutto giocato sui toni verde scuro del cuore del carciofo, della rucola e del mallo verde della noce. Amaro e piccante intensi, e in bocca l’astringenza verde dell’oliva appena prima dell’invaiatura.
No, non è un olio accomodante: è un dirupo roccioso su cui arrampicarsi attaccandosi ad alberi in bilico e cespugli di sempreverde selvatici. Ma dove poi, quando meno te l’aspetti, trovi una piccola piazzola coperta di erba e cicoria in fiore.
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